Partecipando mercoledì scorso a La Gabbia, la trasmissione de La7 condotta da Gianluigi Paragone, ho “osato” riferire un dato ufficiale, citato dal ministro del Lavoro Enrico Giovannini in una sua recente audizione al Senato: nel terzo trimestre del 2013, c’è stato un saldo positivo tra nuove assunzioni e cessazioni di rapporti di lavoro di oltre 25mila unità. Dopo cinque trimestri di saldo negativo, con centinaia di migliaia di posti di lavoro andati in fumo, finalmente la tendenza si è invertita.
Appena sottolineato quel dato, ho subìto un boato di disapprovazione e di contestazione dal pubblico presente in studio: la mia è parsa a tanti presenti come una difesa dell’indifendibile, di fronte ad una situazione così drammatica per l’occupazione. Eppure mi sono limitato a riportare un dato di realtà, da interpretare come si vuole, ma pur sempre un dato di realtà!
Sapevo che mi sarei scontrato con una platea pregiudizionalmente ostile, ma ciò non mi è parsa una ragione sufficiente per non dire le cose come stanno: il quadro economico è ancora caratterizzato da evidenti debolezze strutturali (di cui i dati allarmanti sulla disoccupazione sono una cartina al tornasole), ma il saldo positivo dei rapporti di lavoro rappresenta un segnale di speranza che deve motivare chi ha responsabilità politiche a fare di più, perché c’è una luce in fondo al tunnel e abbiamo il dovere civile e morale di lavorare per raggiungerla prima possibile.
Chi vuol riformare l’Italia nel profondo non può cadere nella trappola disfattista del “tanto peggio, tanto meglio”, che è la strategia perfetta di un certo populismo. Tra l’ottimismo tanto al chilo che Silvo Berlusconi ci propinava qualche anno fa (“i ristoranti sono pieni!”, “usciremo dalla crisi prima degli altri!”) e gli attuali professionisti del pessimismo, c’è un filo rosso, un minimo comune denominatore: sono entrambi difensori dello status quo.
Di dati positivi ieri a La Gabbia ne avrei potuti presentare altri (e certamente lo farò prossimamente): ad esempio, avrei potuto citare una ricerca di UnionCamere secondo cui il 37,3% delle medie imprese industriali italiane ha dichiarato lo scorso novembre che il loro 2013 si sarebbe chiuso con un aumento del fatturato, mentre il 34% ci sarebbe stato un incremento della produzione. Sono ancora una minoranza, ma erano molte meno nel 2012: in quell’anno solo il 26,6% delle aziende stimava un aumento del fatturato rispetto all’anno precedente e solo il 22,1% un incremento della produzione.
Cosa ci suggeriscono questi dati? Che possiamo e dobbiamo fare di più, che c’è un’Italia della produzione e del lavoro che ha ancora i fondamenti sufficienti per competere, innovare e creare ricchezza. Che è opportuno concentrare sulle imprese e sui settori sani e dinamici gli sforzi, abbandonando la tendenza a bruciare risorse pubbliche in aziende e settori decotti, magari solo per compiacere qualche gruppo di interesse politicamente organizzato.
Quei timidi segnali positivi ci debbono spingere ad essere ancora più convinti della necessità di un patto di coalizione tra le forze che sostengono il governo Letta fortemente orientato sui temi del lavoro. Abbiamo bisogno di un vero e proprio business plan, un canovaccio di azioni concrete e puntualmente identificate in termini di tempistica, costi ed effetti. Dopo i professionisti dell’ottimismo e quelli pericolosissimi del pessimismo interessato, sarebbe proprio il caso di vedere all’opera i professionisti delle riforme.
Articolo pubblicato su Strade – Verso luoghi non comuni
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