Librandi (Sc): «Patto di responsabilità nazionale, partite Iva per tutti e sblocco fondi europei»; Bonanni (Cisl): «Incentivi, riduzione tasse sui redditi di lavoro e delle pensioni».
I giovani e il lavoro. Che non c’è. Il leitmotiv è sempre lo stesso. Ce lo sentiamo ripetere da stampa, tv e telegiornali prima, dopo e durante i pasti. IntelligoNews ha incrociato i dati dell’Istat e di Almalaurea. Le ricette opposte del Segretario nazionale della Cisl, Raffaele Bonanni e di Gianfranco Librandi, deputato di Scelta civica. E le storie vere di due giovani ragazze che raccontano la propria esperienza.
DISOCCUPAZIONE RECORD DAL 1977. Mai cosi male negli ultimi 36 anni. La disoccupazione giovanile sfonda quota 40% nei primi mesi del 2013 (era il 35,9% nel primo trimestre 2012), raggiungendo un record che non si vedeva dal 1977. A lanciare l’allarme è l’Istat: sono 3milioni 140 mila i disoccupati. Aumenta così anche il tasso generale di disoccupazione, che raggiunge il record di 12,2% (+1,8 punti percentuali rispetto ai dodici mesi precedenti). Questi dati evidenziano plasticamente la situazione dei giovani in Italia: bloccati e stritolati da una congiuntura recessiva che non sembra voler lasciare spazio alla crescita. Sono 647 mila, infatti, i giovani tra i 15 e i 24 anni in cerca di lavoro e il dato che colpisce ancor di più riguarda i ragazzi del Mezzogiorno: oltre la metà è in cerca di lavoro.
DA BRUXELLES AL GOVERNO LETTA: LE MISURE PER L’OCCUPAZIONE. Poco importa se fra gli Stati del sud Europa siamo quelli messi meglio; peggio solo la Grecia (dove il tasso di giovani under 25 disoccupati veleggia al 59,2%) la Spagna, al 56,5%, e Portogallo al 42,1%. Italia ed Europa, specialmente negli ultimi mesi, sembrano finalmente decise ad andare in questa direzione. Le scorse settimane, infatti, hanno preso forma misure significative per contrastare la disoccupazione giovanile, stabilite direttamente a Bruxelles che ha portato da 6 a 8-9 miliardi, erogabili fino al 2020, lo stanziamento complessivo per i giovani disoccupati. E di questi, almeno un miliardo e mezzo sarà destinato al nostro Paese.
Il Governo Letta, poi, ha approvato un pacchetto lavoro (inserito nel decreto del Fare) con una serie di iniziative e di proposte volte a intensificare l’occupazione giovanile. Come il Bonus Giovani: incentivi per le aziende che assumono giovani disoccupati con contratti a tempo indeterminato. Il bonus previsto dal governo è pari a un terzo della retribuzione mensile lorda imponibile ai fini previdenziali, per un periodo di un anno e mezzo (18 mesi) e non può superare i 650 euro. Per rientrare negli aventi diritto occorre avere un’età compresa fra i 18 e 29 anni e possedere almeno uno fra questi requisiti: il neoassunto deve essere privo di impiego retribuito da almeno sei mesi, non aver conseguito nessun titolo di scuola superiore e vivere solo con una o più persone a carico. «Gli incentivi dati dal governo alle imprese (per favorire il mondo dei giovani, ndr) esprimono una volontà importante, ma non vanno a creare veri e propri nuovi posti di lavoro perché non ridanno vitalità all’economia» sostiene Raffaele Bonanni, segretario della Cisl. «Le basi per creare nuovi posti di lavoro il governo le ha gettate – obietta Gianfranco Librandi, imprenditore e deputato di Scelta Civica – il decreto del Fare è un buon inizio». I detrattori sostengono non sia stato particolarmente incisivo, ma «è una scelta coraggiosa» aggiunge Librandi. «A parte il pacchetto giovani si pensi anche allo sblocco dei debiti della P.a. varato dall’esecutivo e in netta continuità con l’azione del governo Monti: sono già entrati nel circuito produttivo oltre 8 miliardi di euro (dei 40 previsti, ndr): questo ha ridato slancio alle imprese, sta permettendo una maggiore propensione alla spesa e agli investimenti. Mi sembra un ottimo inizio per favorire le assunzioni in un’azienda vista la maggiore produttività che ne scaturisce. E lo dico con cognizione di causa: sono un imprenditore e mi rendo conto in prima persona di quello che sta avvenendo».
Un inizio, certo. Al quale però è necessario abbinare politiche industriali mirate e che stimolino seriamente la competitività. A suggerirlo è lo stesso Bonanni: «Occorre una politica fiscale drastica abbinata a uno shock fiscale positivo: bisogna ridurre le tasse sui redditi da lavoro e pensioni, ma anche alle imprese che assumono giovani e disoccupati». Alza il tiro Librandi: «Propongo un patto di responsabilità nazionale». Cosa intende? «Il contratto di lavoro nazionale deve essere una cornice. Poi vanno fatti gli accordi locali: ogni azienda ha delle problematiche diverse, bisogna guardare al dettaglio e fare contratti specifici». Senza questo l’Italia è destinata a continuare a perdere le sue giovani menti. Infatti «le intelligenze vanno considerate di più. Bisogna investire sulle nostre giovane menti, prevedendo borse di studio, e incentivando le loro capacità di fare impresa e di sfruttare le nuove tecnologie».
UNA LAUREA CI SALVERÀ? Non sono più incoraggianti i dati diffusi da Almalaurea, il Consorzio interuniversitario nato in Italia nel 1994 con l’obiettivo primario di porsi al servizio dei laureati, delle Università e delle imprese per rendere disponibile, periodicamente, una documentazione affidabile e tempestiva sul capitale umano formato ai più alti livelli. Almalaurea, infatti, realizza annualmente una banca dati online dei laureati, consultabile da aziende e imprese, per agevolare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro nel mercato nazionale e per favorire la mobilità transnazionale. Ed è proprio Almalaurea, subito dopo l’Istat, a lanciare l’allarme: nel XV rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati – “Investire nei giovani: se non ora quando?” – diffuso nel marzo 2013, incrociando i dati Istat sui livelli di occupazione (e disoccupazione) giovanile con quelli delle proprie rilevazioni, traccia un profilo disastroso della situazione italiana, soprattutto se messa a paragone con quella europea.
Se, come si legge nel dossier, «la laurea continua a rappresentare un forte investimento contro la disoccupazione», in Italia «è meno efficace rispetto agli altri Paesi europei». In controtendenza, dunque, nel belpaese si registra una forte contrazione della quota di occupati nelle professioni ad alta specializzata. Seppur la quota di laureati tricolori è esattamente in linea con quella europea attestandosi attorno ai 400mila ogni anno (rispetto a qualche anno fa, quando il ritardo italiano in fatto di scolarizzazione era molto elevato), non si è ancora in grado di raggiungere i livelli europei di occupazione specializzata. Soprattutto nell’ultimo anno, infatti, abbiamo assistito ad un deterioramento maggiore delle performance dei laureati. Oltre ad essere aumentato significativamente il dato della disoccupazione giovanile (paragrafo precedente) tra i circa 65mila laureati del 2009 il tasso dei non occupati si attesta al 23% (tra i detentori di lauree triennali) e del 21 tra i laureati specialistici. Il dato, purtroppo, è destinato ad aumentare ancora di più se si prendono in considerazione i circa 70mila laureati del 2011: sono ancora “a casa” il 66% dei “triennalistici” e il 59% dei laureati specialistici. E allora, seppur politicamente scorretta, la domanda sorge spontanea: serve ancora una laurea per trovare il lavoro dei sogni?
LAVORARE PER VIVERE O VIVERE PER LAVORARE? «Ho una laurea in tasca e ho fatto pure il master. Ma ho chiuso tutto nel cassetto per accettare un posto in una grande multinazionale». A dirlo è la ventisettenne Sara, che sorride amaramente. E continua: «Io sono “la ragazza dei badge”, quella che, quando arriva un ospite, deve indirizzarlo, drgli a che piano deve andare». «Ma alla fine del mese guadagno 1600 euro – continua – riesco a pagare la rata del mutuo, quella della macchina e anche a concedermi una vacanza ogni tanto. Alla fin fine: lavoro per vivere, non il contrario». La mattina, quando arriva in ufficio fa uno sforzo abnorme per costringersi a sorridere davanti a clienti e colleghi. «A volte ne soffro, so di poter meritare di più, ma ho messo da parte le mie ambizioni professionali, quelle che mi spinsero ad iscrivermi all’università per inseguire un sogno» dice. Per il momento non ha intenzione di lasciare il suo “posto sicuro”. «Se vedo un futuro per la mia generazione? Sì, ma non in Italia. Magari all’estero, in Inghilterra o in Germania». Dall’altra parte c’è Melania, ventisettenne anche lei e con un curriculum molto simile a quello di Sara: laurea in sociologia, specializzazione in ricerche statistiche e master, ovviamente. «Oggi lavoro per un’associazione, mi occupo di raccogliere dati e fare ricerche». «Mi piace il mio lavoro? Sì, molto: ogni mattina apro il occhi e sono contenta di attraversare la città con i mezzi pubblici (impiegandoci quasi 2 ore!) per arrivare in ufficio». Piccolo neo: lo stipendio. «Alla fine del mese mi danno un rimborso spese: 390 euro» dice, anche lei sorridendo amaramente. Cosa ci fa? Nulla. «Vivo con i miei genitori e ho bandito dalla mia vita qualsiasi cosa sia superflua: niente viaggi, niente cene fuori con gli amici. Al massimo posso permettermi una pizza a domicilio». E conclude: «Il mio lavoro? È tutta la mia vita».
IMPRENDITORI DI SE’ STESSI. Le esperienze sono reali e tangibili. E quel che emerge plasticamente è una realtà sociale traballante composta da giovani sempre più allo sbando costretti a pagare le colpe dei padri. È il peso di quel benessere che ha fatto la fortuna delle generazioni precedenti, costruito su riforme lavorative e previdenziali poco lungimiranti, e che oggi mostra tutta la sua fragilità e la sua inconsistenza. Una zavorra fatta ricadere sulle spalle troppo piccole dei giovani di oggi che si trovano così impreparati a gestire le contraddizioni del terzo millennio. Negli ultimi anni il cosiddetto esercito delle partite Iva è aumentato abbondantemente. Secondo i dati del Dipartimento delle Finanze questo sistema ha portato, nel corso del 2012, all’apertura di circa 549.000 nuove partita Iva (+2,2% rispetto al 2011) e più della metà di queste sono intestate a giovani under 35 anni. Il problema, tuttavia, non nasce dal concetto intrinseco delle partite Iva, bensì dalla gestione errata a livello burocratico. «Il concetto delle partite Iva non è affatto sbagliato – sostiene Librandi – anzi: sono a favore di veri e propri contratti cumulativi liberi». Cioè? «Il giovane in cerca di lavoro, mediante un’autocertificazione, può aprirsi una partita Iva. In quanto under 30 dovrebbe pagare pochissime tasse, non più del 10%». Dov’è la novità? «In un momento di crisi del mondo del lavoro come quello che stiamo attraversando, i giovani hanno difficoltà a trovare un impiego e un posto fisso con un contratto magari indeterminato. Con una partita Iva aperta mediante autocertificazione i giovani possono fornire la propria manodopera e il proprio intelletto anche a diversi datori di lavoro nel corso della giornata. In questo modo tutti i lavori, anche le prestazioni occasionali, non sarebbero realizzate in nero, ma certificate a tutti gli effetti» conclude.
DO OR DIE. L’Italia deve tornare ad essere più competitiva. Il monito arriva tanto da Bonanni, quanto da Librandi, quasi all’unisono. Il segretario della Cisl invoca «politiche industriali serie e in grado di intervenire su tutti quei fattori che finora hanno mal funzionato nella gestione delle produzioni italiane (costi troppo alti dell’energia, infrastrutture inefficienti, tasse nazionali e locali troppo alte) che hanno limitato gli investimenti esteri». Gli fa eco Librandi: «Abbiamo fatto scappare le multinazionali tedesche che producevano in Italia: nel nostro Paese si pagano troppe tasse e non siamo “welcome”».Come reinventare sé stessi? «Fiducia nei giovani. È lo Stato a doverla avere» asserisce Librandi che detta la linea da seguire: «Dobbiamo aiutare le nuove generazioni a fare impresa, magari agevolandoli per le spese di start up». Con lo Stato a far da garante? «Lo Stato non può far da garante, non sarebbe giusto. Però sbloccando i fondi europei, quelli che ogni anno restituiamo per non averli saputi utilizzare né sfruttare, si potrebbero aiutare moltissimi giovani volenterosi, meritevoli e capaci ad intraprendere un’attività».
Articolo pubblicato da IntelligoNews.