Articolo pubblicato dal quotidiano online Intelligo News.
Con l’eccezione della Repubblica Sudafricana, della Repubblica del Congo, del Ciad e, ovviamente, della Somalia e della Libia dove le strutture statali sono praticamente inesistenti, tutti gli altri paesi del continente africano hanno economie che il Fmi classifica come emergenti e in via di sviluppo.
Più in particolare, il loro tasso di crescita media annua è stimato pari al 5,1%, più del doppio di quello attribuito ai paese sviluppati, che è del 2%, e superiore alla media mondiale del 3,8%. Un continente in effervescenza in tutte le sue macro-regioni: quella settentrionale, mediterranea e araba, quella sub-sahariana occidentale (Nigeria al 6%) e orientale (Etiopia al 7,5%), quella equatoriale (Tanzania al 6,9%), e quella meridionale o australe (Mozambico al 14,5%, Angola al 5,8%). Un continente, quindi, pronto a fare il grande balzo verso sistemi economici più complessi e articolati purché sia superata una doppia carenza: finanziaria e infrastrutturale-energetica. È vero che ci sono alcune zone in grande sofferenza, ma potrebbero essere circoscritte e affrontate con una concentrazione di mezzi.
A parte le imprese multinazionali, che operano principalmente nei settori minerario e agricolo, tra i grandi protagonisti dell’economia mondiale solo la Cina ha avuto un approccio strategico nei confronti del continente. Il grande assente è l’Europa come soggetto unitario perché continua a considerare l’Africa – anche se non lo ammette – con l’occhio delle vecchie potenze coloniali che, ancora mezzo secolo fa, se la spartivano; oppure come un’area dove intervenire in termini di aiuti, più o meno di emergenza, per vincere la povertà. Se questa seconda percezione non corrisponde ai fatti e alle tendenze in corso, la prima trova un rispecchiamento nelle classi dirigenti dei paesi africani. Una memoria collettiva non sparisce e non si trasforma in cinquant’anni. Anche per questo la Cina, che fin dalla Conferenza di Bandung del 1955 cercò di imporsi come leader dei paesi ex coloniali, ha avuto buon gioco nel conquistare la fiducia di molti paesi africani, ma soprattutto perché punta con convinzione sul loro futuro.
Di certo manca, nei paesi europei, un’informazione sistematica sulle vicende politiche ed economiche del continente. Fanno notizia le stragi, i massacri etnici, gli atti di terrorismo. I media nazionali dei singoli paesi europei privilegiano le informazioni che arrivano dalle proprie ex colonie, trascurando il resto. Così dell’Africa si ha una visione frammentaria, che poco interessa le forze politiche, eccetto quando sono direttamente impegnate o coinvolte. Ci si impressione alla “voce” che un milione di “profughi” starebbero per sbarcare in Europa. E non si pensa che in Africa vivono 1 miliardo e 111 milioni di persone. Manca un approccio realistico. Che potrebbe essere solo europeo, e con ricadute vantaggiose anche per tutti i paesi europei che vi si impegnassero, e non genericamente etichettato come “aiuto allo sviluppo”, ma puntato su pochi fattori strutturali: l’acqua, l’energia elettrica, sfruttando le immense risorse idriche troppo concentrate, e le vie di comunicazione terrestri, per persone e cose, poiché non può bastare il traffico aereo e marittimo, in quanto si tratta – come è già avvenuto positivamente per il Sud-Est asiatico – di incrementare gli scambi inter-africani. Tutto il resto seguirebbe: istruzione, sanità, urbanizzazione, diversificazione produttiva, e quindi scambi commerciali.
Un “Piano Marshall” europeo per l’Africa dovrebbe quindi concentrarsi su pochi punti essenziali, coordinando a monte progetti finanziari, industriali, ingegneristici e logistici, per offrirli ai destinatari. E qui sorge un problema a valle, poiché l’Africa non è una realtà omogenea. Dunque servirebbe anche un coordinamento diplomatico dei rappresentanti dei paesi europei accreditati nei paesi africani per evitare che a Bruxelles si approvino piani sollecitati individualmente dai membri della Ue. Infatti non c’è un parallelismo stretto con il Piano Marshall del 1948 che gli Usa elaborarono per l’Europa, una regione che aveva già raggiunto un alto grado di capacità industriale (eventualmente da ricostruire più moderne) e mancava solo di risorse finanziarie. Adattato all’Africa, il progetto potrebbe funzionare purché i paesi africani, come fecero quelli europei quasi settant’anni fa, siano pronti a comprenderlo in termini non neocolonialistici e ad accettarlo.
di Alessandro Corneli